Il lockdown mi impedisce di vedere i miei nipotini sebbene siano a 40 minuti di auto, ma in una altra regione. Così, concedetemi un po’ di nostalgia di famiglia, di storie di casa, per sentirmi meno sola. Ci sono quelli che per addormentarsi contano le pecore, io faccio l’elenco degli zii di mia mamma. Erano 12 fratelli e, come nel caso dei sette nani di Biancaneve, manca sempre un nome all’appello. Dieci maschi e due femmine, riuscite a pensare a una famiglia così? Crescerli, mettere in tavola per tutti, lavare, cucinare, tenere in ordine… Il risultato, con le discendenze di due generazioni, è una vera e propria tribù fra Italia e Stati Uniti (da cui però, ultimamente, le cugine vorrebbero decisamente tornare in Italia…). Una tribù che si tiene in contatto, chi più, chi meno, a seconda del temperamento e della distribuzione geografica, ma che, mediamente, si vuole bene e condivide gioie e dolori. Perché io ho capito, invecchiando, una cosa importante: che si può gestire un dolore, da soli, ed è difficile e doloroso (scusate il bisticcio); ma è davvero triste essere da soli in un momento di gioia, non poter condividere un risultato, una soddisfazione. E che la famiglia è una ricchezza, quella vera. Per me la famiglia era la domenica, quando tutti ci si trovava sulla terrazza della nonna Peppina, personaggio incredibile dal lessico creativo. Nata settimina nel 1903, era curiosa di tutto, anche delle parole: leggeva il quotidiano la stampa (siamo piemontesi) sfogliandola piano piano e se non capiva qualcosa chiedeva a noi nipoti “studiate”, ma anche Famiglia Cristiana e “Donne rurali”: con questo aveva anche partecipato a un concorso, rispondendo ad alcune domande, e aveva vinto una culla termica per pulcini. Ci sgridava se ci abbronzavamo – per lei era da contadini, “sembri una abissinia”, diceva, retaggio di tempi di colonie. La grotta di Lourdes, dove era andata in pellegrinaggio, era “sottoterranea” (e provate a smentirla!); gli occhiali con la doppia lente erano “bifolchi” e si meravigliava molto dei paracarri “effervescenti” (per chi non conoscesse il linguaggio peppinesco, fosforescenti). Ma aveva sempre qualche uovo fresco per le nipoti, era sempre pronta a sbattere il tuorlo con lo zucchero per la merenda più dolce del mondo e a cucinare per ore e ore per i piatti tipici nelle feste comandate. Da lei in sala c’era il tavolo dei grandi e quello dei bambini, con un cassetto pieno di caramelle e cioccolatini; in bagno il sapone solido, un parallelepipedo che sapeva di buono per lavare; in cucina una pentola sempre in caldo sulla cucina economica: che fosse il caffè (della Peppina, come quello della canzone) o il brodo per il risotto. E la cena più buona del mondo, per noi, era quella della domenica sera d’estate con la insalata fresca dell’orto e le uova sode, tutti insieme sul tavolo di pietra del cortile. E nel giardino di una cugina qualche settimana fa abbiamo festeggiato la laurea di ingegneria della Lucia, all’aperto, con tutte le attenzioni e le precauzioni del caso. Sperando di poter tornare a incontrarci di persona e festeggiare la fine di questo incubo.
PS. la foto è curiosa perché la possiamo fare, numericamente simmetrica, solo ogni undici anni: io ne ho 66, mia figlia 33, Lucia 22. Appuntamento al 2031!