“Io sono io, e me ne vanto; non voglio niente dalle altre e per le altre. Le eguaglio per nascita. Le supero per bellezza. Le giudico per ingegno. Io valgo molto più di loro. Riconosco che posso non sembrare buona, dato il mio carattere fiero, franco e libero, che mi fa essere talvolta cruda e dura. Così qualcuno mi detesta; ma ciò non mi importa non ci tengo a piacere a tutti.”
Virginia
Mi chiamavano la statua di carne: fossi vissuta oggi, sarei stata The body. L’unica cosa noiosa, in me, erano i nomi: ben sette, come voleva la tradizione dell’epoca, Virginia Elisabetta Luisa Carlotta Antonietta Teresa Maria e per fortuna non c’era il codice fiscale, se no sarebbero impazziti all’anagrafe… Sono nata nel 1837, dalla Marchesa Isabella Lamporecchi – figlia della ballerina Luisa Chiari – e dal Marchese Filippo Oldoini di La Spezia, ma ho sempre sostenuto di essere nata sei anni dopo: così come tante soubrette televisive di oggi. «Ogni donna ha il dovere di essere bella, non per sé, ma per gli altri. Per sé invece, deve essere ambiziosa, astuta e agguerrita» era il mio motto. Difficile darmi torto, anche a distanza di oltre un secolo e mezzo. Praticamente bambina, entrai alle Orsoline per una crisi mistica che durò poco. Sedicenne, persi la verginità con un giovane Doria: la faccenda, all’epoca, era ben grave, così la famiglia nel 1853 accettò volentieri la proposta di matrimonio di Francesco Verasis Asinari di Costigliole d’Asti e Castiglione Tinella, di dodici anni più anziano di me, vedovo, ricco, brillante e convinto che io fossi la donna più bella del mondo. Ci aveva presentati in realtà un amico di famiglia, Massimo D’Azeglio. Quello stesso famosissimo statista che volle tra i suoi ministri Cavour contro il parere del re: Vittorio Emanuele accettò di malavoglia, con le seguenti profetiche parole: “va bene come vogliono loro. Ma ch’al stago sicur che col lì an poch temp an lo fica n’tel pronio a tutti”. Anche chi non conosce il piemontese può capire il senso. Solo un anno dopo Cavour rovescerà d’Azeglio per prenderne il posto. Cavour, per la cronaca, era cugino del Verasis e, astutamente, lo aveva sconsigliato dallo sposarmi perchè mi riteneva troppo leggera e di costumi troppo disinvolti; salvo poi utilizzarmi, come vedremo, quando gli servirò. Al matrimonio D’Azeglio, causa mal di gola, non potè venire; e se ne era molto dispiaciuto, anche perché da bravo piemontese, aveva risparmiato sul regalo, prendendo solo dei confetti: e un conto, si era lamentato con un’amica, è portarli di persona, ma se si tratta di farli consegnare sono assolutamente inadeguati…
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Mio marito aveva allestito per me una casa bellissima, per cui si era quasi rovinato: alla fine lui dovrà vendere tutti i suoi beni, ma io porterò sempre con me ovunque e sempre il letto della stanza matrimoniale, color oro e porpora; e qualcuno potrebbe pensare che io abbia confuso l’abbandono del tetto coniugale con l’abbandono del letto coniugale…
Da La Spezia, dove il conte mi aveva conosciuta, ci trasferiamo a Torino e io vengo presentata a corte. Rimango incinta, cosa di cui non sono per niente contenta, e partorisco un figlio, Giorgio, che non amerò particolarmente, ricambiata allo stesso modo. Lui addirittura, ancora ragazzino, mi ruberà delle carte e mi ricatterà. Morirà di vaiolo, a 24 anni.
Sono giovane, bellissima, colta, conosco quattro lingue italiano, francese, tedesco e inglese; sono elegante, creativa, brillante e assolutamente disponibile.
Così, quando Cavour deve cercare qualcuno per ammorbidire Napoleone III, imperatore dei francesi, pensa di usare come agente segreto proprio me, la sua bellissima cugina. Io, per altro, aveva già del talento di mio: tanto è vero che nelle mie numerosissime avventure (le cronache dicono che avessi lasciato, partendo per Parigi, fra Torino, Firenze e Spezia ben 46 amanti addolorati) tenevo un accurato diario con un complesso sistema di sigle alfanumeriche. Ed ero stata così brava che ancora non sono state tutte decodificate: si è ben capito invece che E stava per abbracci (embrace in francese), B stava per baci, BX per qualcosa di più, F per qualcosa di più ancora, FF, fifty fifty per metà affari e metà sentimento, mentre PV stava per pura vendetta. Geniale, che ne dite?
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Arrivo a Parigi nel 1856 in un momento che Cavour ha studiato alla perfezione: l’imperatrice Eugenia è incinta, in avanzato stato di gravidanza, e Napoleone III è quindi molto libero nelle sue avventure. Siamo alla vigilia della conferenza della pace. Cavour scrive: “Andiamo in scena. Se non piacevole, sarà curiosa. Intanto sono cominciati i pranzi ufficiali e se non le nostre intelligenze i nostri stomaci sono messi a dura prova. Ho arruolato nelle file della diplomazia la bellissima contessa di XXXX” Indovinate chi è?”. E a me con assoluto cinismo: «Cerca di riuscire, cara cugina, con il mezzo che più vi sembrerà adatto, ma riuscite!».
Il resto credo lo sappiate già: io divento l’amante di Napoleone, lui appoggia la causa dell’Italia. L’imperatore mi copre di regali, la nostra relazione minaccia di durare. La moglie Eugenia ne è preoccupatissima, tanto che organizza un finto attentato al marito, con un vero morto purtroppo, quando l’imperatore si reca a trovarmi. In un delirio di servizi segreti deviati, doppio e triplo gioco, in ogni caso, anche se io ero assolutamente innocente (in questo caso specifico, sia chiaro) il sovrano si disgusta: ma i maligni dicono che mi fossi lasciata andare a qualche chiacchiera di troppo sulla presunta velocità nell’alcova dell’imperatore, pettegolezzo sicuramente da lui poco gradito.
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Torno a Torino avvilita ma poi, a Parigi, anche se bandita a corte, riconquisto la scena: mi appassiono alla fotografia, divento un’apripista per tanti artisti futuri. Gioco in borsa e approfitto dei conflitti e della mia esperienza come agente segreto per ottenere informazioni in codice sull’andamento delle guerre e investire di conseguenza. Sebbene sia riuscita, con le spese pazze che gli ho fatto affrontare, a rovinare mio marito, io accumulo un vero capitale (alla mia morte avrò due milioni di lire di fine ottocento). Continuo nelle mie avventure, ma a poco a poco mi ritiro sempre più nei ricordi: conservo in una teca di cristallo la camicia da notte di seta acquamarina con cui avevo conquistato e sedotto Napoleone III: e va detto che se avessi vissuto oggi avrei potuto guadagnarmi un bello stipendio come stilista di Laperla o Woolford: perché sono stata la prima a sostituire i mutandoni con leggere culotte di seta, a lanciare le giarrettiere decorate con strass e scritte allusive, a indossare anelli e pietre preziose anche alle dita dei piedi, lasciati liberi con calzature quasi invisibili. Maniaca dei dettagli, impiegavo intere giornate e montagne di denaro per una sola toilette per prepararmi a un incontro: salvo poi decidere di restare a casa, spogliarmi e andare a letto, vabbè, non sempre da sola, se il risultato non mi soddisfaceva del tutto.
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Dopo aver brillato e scintillato dell’eleganza più sfrenata, tra balli e amanti, e aver conosciuto i fasti e i trionfi della mondanità e della mia influenza, finisco i miei giorni come una romantica eroina: in solitudine, malinconica, nostalgica e inconsolabile per il fascino perduto. E come un’eroina decadente farò coprire gli specchi del mio appartamento parigino con un velo nero, affinché non rispecchino più la bellezza perduta. Il 28 Novembre 1899 muoio nella mia casa, per una volta senza clamore. Nelle mie ultime volontà chiedo di essere sepolta a La Spezia, senza funzione religiosa, e senza fiori, senza informare nessuno, né giornali né autorità, con indosso la camicia da notte leggera e preziosa, che stava tutta nel palmo di una mano, che avevo indossato nella famosa notte a Compiegne per l’imperatore, con al collo i sei giri di perle, tre bianchi e tre neri, che lui mi aveva regalato, sotto il capo un cuscino di velluto ricamato da mio figlio Giorgio quando era bambino, e di avere ai miei piedi, nella bara, i miei due cagnolini imbalsamati. Nessuno dei miei estremi desideri venne esaudito: mi tumularono con una regolare funzione religiosa, fui privata della compagnia dei miei cani, dei gioielli, persino del cuscino del figlio di cui, in un tardivo sussulto di amore materno mi era ricordata; non mi fecero indossare né i gioielli né la famosa camicia da notte, prontamente sottratti da eredi d’accordo con un avvocato compiacente. Nel testamento avevo scritto di non aver parenti che potessero rivendicare la sua eredità e, per sicurezza, li avevo elencati uno per uno; ma poiché mi ero dimenticata di lontanissimi cugini, questi ebbero buon gioco a impadronirsi della mia consistente fortuna. Rivendettero tutte le mie cose, compresa la famosa camicia da notte, a collezionisti. Dopo tanto peregrinare, la camicia da notte venne acquistata da Adriano olivetti, che la donò al museo cavouriano di Santena. Il caro cugino conte di Cavour avrà fatto qualche capriola nella tomba, o, forse, si sarà divertito….
NOTA BENE: Subito dopo la morte della contessa di Castiglione polizia, autorità e servizi segreti bruciarono tutte le lettere e i documenti a lei inviati dalle massime personalità del tempo con le quali era entrata in contatto, re, politici e banchieri. La sua salma riposa nel cimitero di Pere Lachaise a Parigi perché il testamento con le sue ultime volontà pare fu trovato a funerali avvenuti.
PS: se ne volete sapere di più, se vi ho incuriosito, potete leggere il libro di Valeria Palumbo La contessa di Castiglione – la donna che osò amare se stessa (Neri Pozza editore).