La storia, come da dizionario, è un vocabolo singolare femminile: e così io voglio raccontarla, dando voce alle protagoniste di vite esagerate, principesse sul trono, ma anche sul palco o nella vita. Donne che hanno che hanno avuto destini singolari, ma anche sentimenti, sogni, dolori comuni a tutte noi. Da Jackie Kennedy alla contessa di Castiglione, da Cleopatra a Florence Nightingale, da Elisabetta II a Diana passando per Wallis Simpson. Perché la storia, singolare e femminile, è troppo spesso raccontata da troppi uomini, al maschile.
Jackie Kennedy
Fa caldo, troppo caldo e il tailleur rosa è troppo pesante. L’auto va troppo piano. Per fortuna là in fondo c’è una galleria dove sfuggire al sole, almeno per un attimo, e poi sono quasi arrivati a destinazione.
“Jackie, togliti gli occhiali”.
Jack è sempre così attento a tutto, in particolare qui a Dallas, dove devono riconquistare voti preziosi. Le ha raccomandato tanto di salutare alla sua sinistra, mentre lui saluta a destra. Così, lei nemmeno si gira quando c’è uno scoppio, pensa al tubo di scappamento di una moto. Così, lei è l’ultima a vedere il sangue sul suo volto, la sua testa aperta da un secondo proiettile. Così le ultime parole che lei sente da suo marito sono:
“Jackie, togliti gli occhiali”.
Hanno ucciso il presidente. Hanno ucciso suo marito. La sua vita, che si era appena stabilizzata, sta per cambiare. Per sempre cristallizzata in quella immagine. Come la macchia di sangue sul tailleur rosa fragola. Una macchia sulla storia degli Stati Uniti, una macchia su un abito che non era nemmeno un vero Chanel ma una copia della boutique Chez Ninon.
Un falso, come quasi tutta la sua vita.
Falso come il sorriso radioso il giorno delle nozze con John Fitzgerald Kennedy, promettente rampollo di una tanto potente quanto discussa famiglia. Una giornata in bianco e nero, come le foto passate alla storia. L’abito candido, che era stato scelto a New York da sua madre Janet, non le piaceva, non le donava e non la faceva sentire a suo agio. Suo padre, l’amato Black Jack, non aveva potuto accompagnarla all’altare perché la sera prima, dopo che la ex moglie Janet gli aveva comunicato che non era un ospite gradito al ricevimento nuziale, si era preso una sbronza talmente colossale che aveva dovuto essere ricoverato in ospedale. Lo sposo era reduce dalla sua (non) ultima vacanza da single, nel Sud della Francia, in compagnia con una bellissima bionda, sosia svedese di Grace Kelly, a cui era sembrato affranto all’idea di tornare negli States per sposarsi.
Dagli “amici” Jackie era stata avvisata delle pessime condizioni di salute di quel futuro marito che veniva fotografato e presentato come un campione di vigoria fisica: i gravi problemi alla schiena, il morbo di Addison, la passione per le donne. Nessuno, invece, le aveva detto della malattia venerea che probabilmente, per drammatica ironia, sarebbe stata una delle cause delle sue difficili gravidanze. Onta suprema in una famiglia, come quella dei Kennedy, in cui la fecondità femminile era un vanto ma di cui, ovviamente, si faceva una colpa a lei.
Falso come la loro esibita serenità: un anno dopo le nozze Jack era stato operato due volte alla schiena, era entrato in coma e gli era stato somministrata l’estrema unzione. Aveva continuato le sue avventure, a volte persino con la complicità del suocero, ma proprio quel contatto ravvicinato con la morte lo aveva portato più vicino alle ambizioni del padre, deciso a far sì che uno dei suoi figli diventasse il primo presidente cattolico degli Stati Uniti. Quelle ambizioni, e Joe Kennedy con il peso della sua autorità e del suo patrimonio, avevano evitato il divorzio: il suocero le aveva offerto un milione di dollari per restare. “E perché non dieci?” gli aveva risposto lei inviperita, quando la notizia era uscita sul Time, “valgo così poco?”. Ma era rimasta. I soldi per lei avevano da sempre un fascino irresistibile, paragonabile solo a quello che lei aveva sugli uomini. Forse perché sua madre aveva lasciato il padre, rovinato, per sposare un uomo molto, molto ricco. Ma lo sfarzo in cui era cresciuta non le era appartenuto, come non le apparteneva ora la ricchezza smisurata dei Kennedy. Come non le sarebbe appartenuta quella del suo secondo marito, Aristotele Onassis. Certo, avrebbe vissuto tutta la vita negli agi, ma avrebbe sempre dovuto fare i conti con il denaro e con l’amore. Conti che, in tutti e due i casi, non erano mai tornati.
Come quando John si era molto molto arrabbiato per quello che aveva speso in vestiti: allora lei aveva deciso di risparmiare. Ma non certo sui vestiti… Negli incontri alla Casa Bianca aveva dato ordine che i bicchieri di vino e liquori consumati a metà venissero riempiti di nuovo e rimessi sui vassoi. E’ impressionante la quantità di alcolici che si bevono in quelle serate! E aveva deciso anche di riciclare ai nipotini tutti i regali arrivati per Natale da tutta l’America per i suoi figli: quei regali che, altrimenti, sarebbero finiti ai bambini dell’orfanatrofio… ma doveva alleggerire i conti di casa per potersi comprare un altro abito, un altro cappellino, un altro paio di scarpe. Le servivano. D’altra parte lo diceva anche John: “Nessuno guarda come mi vesto, io sono l’uomo che accompagna Jackie”.
Come le sembravano lontane quelle liti, futili quelle preoccupazioni! Dopo la morte di Patrick, il loro terzo figlio, che aveva resistito solo pochi giorni, John le era stato vicino come mai prima. Per quello aveva accettato di accompagnarlo a Dallas. Elargendo la sua presenza come un dono prezioso: ma, questa volta, accolto con particolare affetto. Poi c’era stato Dallas. Poi, solo dolore e paura. Paura per i suoi figli, paura per Bob, paura che la sua vita fosse finita. Paura di rimanere imprigionata per sempre nel ruolo della vedova di Camelot, sopravvissuta, congelata protagonista di un sogno che in realtà era sempre stato un falso.
Come fuggire? Dove? Con chi? Andando a vivere in un Paese lontano da quell’America che aveva ucciso Jack e i loro sogni, a rifugiarsi fra le braccia di un uomo che potesse proteggere lei e i loro figli, nascondersi (o esibirsi) dentro una montagna di denaro che le togliesse per sempre la preoccupazione dei soldi. E poi, scendere da quel piedistallo su cui lei stessa era salita, inventandosi la leggenda di Camelot, chiudendosi nei veli neri del lutto come il personaggio di una tragedia greca. Nessuno aveva capito che quelle erano le vere ragioni perché lei, la donna più famosa e ammirata d’America, avesse accettato di sposare un avventuriero greco, brutto, volgare, che esibiva le donne come trofei. E lei era stata il trofeo supremo di Aristotele Onassis. Ma anche il più fragile.
Solo dopo tanti anni sotto i riflettori, sotto esame, sotto critica, aveva finalmente trovato un uomo che, come lei, amava il riserbo. E il denaro. Maurice Templeton, potente uomo d’affari, che aveva costruito la sua fortuna con il commercio dei diamanti ai livelli più alti di potere – fra presidenti e dittatori – diventa il suo amico, il suo consigliere, il suo compagno. Moltiplica i 26 milioni di dollari avuti da Onassis fino a far superare i cento; le sta accanto a New York, negli ultimi sereni anni prima che sopraggiunga il tumore che la ucciderà a 64 anni; ma anche negli ultimi difficili mesi e dolorosi giorni.
L’abito rosa, il finto Chanel macchiato di sangue e materia cerebrale, è conservato al National Archive in Maryland, in un container in cui l’aria viene cambiata tre volte all’ora per conservare al meglio il tessuto: vi era arrivato con un biglietto anonimo su cui era scritto soltanto “Abito e borsa di Jackie indossati il 22 novembre 1963”. Nel 2003, nove anni dopo la morte della madre, Caroline Kennedy lo ha donato ufficialmente agli Stati Uniti, a condizione che non venga mostrato al pubblico prima del 2103. Per un secolo il tailleur rosa macchiato di sangue riceverà nuova aria a intervalli regolari, nel silenzio e nel buio. Come l’abisso di silenzio e buio dove la bellissima Jackie era sprofondata in quell’assolato novembre di 140 anni prima, a Dallas.