“Non si è mai troppo magre, mai troppo ricche”: parola di Wallis Simpson, duchessa di Windsor.
Del terzo corollario, “mai troppo amate”, imparai a mie spese che non era vero. “Quella donna” fui sempre e solo alla corte inglese, dove fui veramente troppo odiata. Io non ero nobile, non ero femminile, non ero né bella né ricca né giovane: ma loro malgrado riuscii a conquistare un principe, un erede al trono, un re per 325 giorni. Per me Edoardo rinunciò al trono d’Inghilterra: un grande gesto d’amore, dichiarato via radio a una nazione sotto choc. Un gesto così estremo che ci incatenò per sempre l’uno all’altra. Lui prigioniero del mio fascino androgino e del mio temperamento. Io di un destino che, forse, non era proprio quello che avevo desiderato. La mia storia è sì quella di Cenerentola che sposa il suo principe: ma decisamente senza il convenzionale “E vissero per sempre felici e contenti”.
E’ il gennaio 1934 quando Thelma, l’amante in carica di Edoardo (per gli intimi David), partendo per gli Usa mi chiede di prendermi cura di lui. “Farò del mio meglio” le assicuro. Nessuna di noi due probabilmente immagina dove ci porterà questo curioso passaggio di consegne di un uomo affascinante, poco virile, un po’ ossessivo, appassionato di feste, abiti, gioielli e… orsacchiotti di peluche. L’erede al trono inglese soffre da sempre di anoressia e, con ogni probabilità, di un leggero autismo. All’epoca, però, io, Wallis, sono al secondo matrimonio, e dopo una prima unione fallita miseramente, felicemente sposata: Ernest Simpson, mio marito, è un uomo d’affari metà americano metà inglese, molto legato alla monarchia; per questo, almeno all’inizio, vede più che bene l’amicizia fra me e il principe. Un nobile così pieno di attenzioni: quando Ernest gli fa i complimenti per un cappotto, David subito gli fa recapitare un taglio dello stesso tweed e l’appuntamento con il sarto di corte perché gliene confezioni uno uguale (il che permetterà ai maligni di definirlo “l’uomo che vendette sua moglie per una pezza di tweed”). A me, invece, il principe fa regali sempre più importanti: ma pretende in cambio, sempre più spesso, il suo tempo e le sue attenzioni. Con sempre maggior insistenza. Mi presenta anche a corte, dopo avermi posato sul capo una tiara di brillanti noleggiata da Cartier: ma l’incontro con i reali non è decisamente un successo. Re Giorgio mi esclude esplicitamente dai festeggiamenti per il Giubileo e dalle corse di Ascot; né mi andrà meglio dopo la morte del sovrano e la salita al trono prima di Edoardo poi di Giorgio VI: la moglie Elisabetta, (la madre dell’attuale regina), mi attribuirà per tutta la vita la la colpa per la morte del marito, costretto a prendersi cura del regno dopo l’abdicazione di Edoardo a causa mia (ricordate il bellissimo film Il discorso del re?).
Sempre più impegnata nella relazione con il principe, salito al trono alla morte del padre, commetto un errore che, proprio io, avrei dovuto evitare: invito dagli Usa un’amica, Mary Kirk, perché tenga compagnia a mio marito. La cosa funziona talmente bene che i due si innamorano. Da vero galantuomo, Ernest vuole proteggere la mia reputazione: si fa “sorprendere” in un hotel con una donna (probabilmente Mary, sotto falso nome) così che io possa chiedere il divorzio per conclamato adulterio di lui. Mentre quello di cui tutti parlano, e non solo in Inghilterra, è l’adulterio di lei, ovviamente, il mio. Nel regno nessuno è disposto ad accettare una regina pluridivorziata: ma il re vuole ad ogni costo che io, il suo amore, sia accettata. Anche a costo di rinunciare al trono. A questo punto, spaventata dal precipitare degli eventi, e ferita da quello che considero “un tradimento” da parte di mio marito, cerco di allontanarmi dal re. Il quale, come in un rapporto di lieve sadomasochismo, a ogni maltrattamento si lega di più a me, arrivando a minacciare di uccidersi nel caso decida di lasciarlo (questa del suicidio era un’idea fissa: in una lettera a una sua precedente amante aveva scritto: “sarei deciso a uccidermi se non fosse così sgarbato nei confronti di papà”). Nel frattempo, lo scandalo ha fatto di me la donna più odiata del regno: persino nelle più lontane colonie i governatori dichiarano che non mi accetterebbero mai come regina. La mia reputazione è rovinata, così come le mie finanze: a 40 anni non ho niente e nessuno su cui contare tranne quel fragile, ossessivo, innamorato sovrano. Io sono paralizzata dalla paura, lui è preoccupato per la mia sicurezza: così mi consiglia di rifugiarmi per qualche tempo in Francia, cosa che io immediatamente faccio. Da Cannes lo imploro per lettera di non abdicare, cosa che lui… immediatamente fa. E dalla Francia, in lacrime, forse non esattamente di gioia, ascolto alla radio il sovrano che dichiara al mondo di rinunciare al trono per sé e per i suoi eredi perché “avrei trovato impossibile assolvere ai miei doveri di re senza l’aiuto e il supporto della donna che amo”. Io, la donna che ama, da quel dicembre 1936, non ho altra scelta che essere al suo fianco. A un anno e mezzo dall’abdicazione ci sposiamo, in un castello vicino a Tours, in Francia, e iniziamo una vita da esiliati di lusso, fra ville, castelli, yacht, chiacchiere, giri di danza e vortici di sospetti. La foto che ci ritrae il giorno del sì immortala il sorriso di trionfo di lui, il mio, così esagerato da parere forzato e, sullo sfondo, le solide sbarre di una finestra del castello, quasi il simbolo di come sarà, blindato e senza via di fuga, il nostro futuro. E, così come alle nozze non ci sarà alcun rappresentante della corona, noi, in vita, non faremo mai più ritorno a corte. Io vi andrò, chiusa in veli neri, quando la bara del mio David, quell’Edoardo VIII che non venne mai incoronato, che abdicò per amore dopo 325 giorni, verrà finalmente accolta da una rigida regina Elisabetta e da una regina madre con quel suo sorriso da Maga Magò sopravvissuta a tutto e a tutti.
Mi hanno dipinta come una romantica dolce eroina e una ninfomane scatenata, una lesbica e un’amante, una donna insignificante capace solo i vestirmi bene, un ermafrodito e una spia al centro di trame internazionali, fra nobili complottisti e generali nazisti. Nella realtà fui una bambina orfana di padre a pochi mesi, rifiutata dalla famiglia, costretta a vivere della carità di ricchi parenti: il che spiega l’ossessione per il denaro che ha segnato tutta mia vita. Non avevo nulla di bello da mostrare. Così, l’unica cosa che potevo fare era vestirmi meglio di chiunque altro, indossare gioielli che nessun’altra aveva. E creare una imagine perfetta di me, del mio matrimonio, in ogni dettaglio: fino a tamponare il muro delle mie stanze con il piumino, in modo che gli imbianchini trovassero l’esatto colore che si intonasse con il mio incarnato.
Dicono di me che fui la donna che più danneggiò la monarchia inglese, eguagliata solo dalla principessa Diana. E in un curioso intreccio di destini, fu proprio correndo verso la villa di Parigi dove io e David abbiamo passato gli ultimi anni della nostra vita, che il ricco Al Fayed aveva acquistati e che l’orgoglioso figlio Dodi voleva mostrare alla ex moglie del principe Carlo, che Diana, la regina dei cuori, trovò la morte.