Mentre mi partoriva, mia mamma aveva chiesto al medico di cavarle un dente che le creava dei problemi. Dolore per dolore, tanto valeva ottimizzare. D’altra parte, era il suo quindicesimo parto -15, avete letto bene – per lei non era certo una novità. Ogni volta, poi, tornava subito al lavoro. Certo, lei era una imperatrice, anzi, LA imperatrice. Maman Maria Teresa aveva un sacco di incontri da gestire e documenti da leggere e firmare, eventi a cui presenziare: e, ovviamente, aveva anche uno stuolo di governanti, e tate, e balie a prendersi cura di noi. Ma, in ogni caso, come potete ben capire, aveva stabilito uno standard decisamente difficile da emulare. Tanto più per me, che non sono mai stata una scolara modello, tutt’altro!, anzi una piccola sfaticata con la complicità della mia istitutrice, che avevo affascinato (come avrei fatto più tardi con il mio illustre suocero), con la mia grazia e l’azzurro degli occhi.
A due anni ho contratto il vaiolo, ma ho salvato la pelle: sia nel senso della vita che in quello dell’epidermide. E non pensate che sia una nota frivola: è un fattore importante, una bella pelle, per una principessa di sangue destinata a un matrimonio reale. Mi è andata decisamente bene, visto che la prima figlia di mia madre ne era morta a tre anni, e la sesta era stata talmente sfigurata da finire i suoi giorni in un convento – che cosa vi ho detto prima? – senza mai mostrare più il suo volto a nessuno. Sempre il vaiolo ha ucciso altri tre dei miei fratelli: Carlo Giuseppe, a 16 anni, Maria Giovanna, a 12 e Maria Giuseppina a 16. Io, grazie alla forma lieve avuta da bambina, ne ero immune. Maman, sempre all’avanguardia su molte cose, aveva poi fatto vaccinare i miei fratelli superstiti, e anche mio marito si sarebbe convinto a correre il rischio del vaccino dopo la morte del padre a causa di questa malattia. Avrei celebrato l’evento a modo mio, inventando una nuova pettinatura, per cui, come al solito, sarei stata criticata: ma sto correndo troppo, gli anni delle follie e delle accuse sono ancora di là da venire.
Ero carina, ignorante e stupidina. Tutte caratteristiche tutto sommato positive per una futura moglie, specie se di alto lignaggio. Ma maman, per cui i nostri matrimoni erano, come di fatto erano, affari di stato, a un certo punto ha deciso che dovevo studiare e imparare: la danza, che mi piaceva, e la storia e il francese, che non mi piacevano affatto. Non sono mai stata una cima, ve lo ho già detto, e scrivevo talmente male, malgrado gli insegnanti sempre più prestigiosi che aveva assunto per me, che ho pasticciato anche la mia firma sul contratto di matrimonio. Macchiando con una grossa goccia il registro ufficiale delle mie nozze con l’erede al trono di Francia, documento che sarebbe rimasto come prova della mia incapacità nei secoli dei secoli. Amen. Fosse solo questo il pasticcio per cui sono passata alla storia! Ma di nuovo corro troppo.
Devo dire a mia difesa che ero una bambina, non avevo nemmeno compiuto quindici anni, quando mi hanno sposata… stavo quasi per scrivere venduta, anche se di fatto di questo si trattava; io ero poco più di una voce in un contratto. In cambio della pace, certo, di alleanze strette per assicurare il bene dell’impero, ma, in fin dei conti, ero un bene di scambio. Con un suo valore, di pregio, come la dote e il corredo che, insieme a me, hanno percorso l’interminabile strada da Vienna a Parigi. Due settimane di viaggio faticoso, sia pure in una lussuosa carrozza, concluso nella sua tappa più importante in una piccola isola sul Reno di fronte a Strasburgo, dove con una cerimonia surreale sono stata passata da una dinastia all’altra, da una nazionalità all’altra, da una identità a un’altra.
Peccato che, per farlo, ho dovuto spogliarmi di tutto ciò che proveniva dalla casa degli Asburgo – e intendo di tutto, nuda come maman mi aveva fatto mentre si faceva cavare il dente – per essere rivestita con abiti, biancheria e scarpe rigorosamente made in France. E peccato ancor più grave il fatto che, per le minuziose regole di galateo, i nuovi capi di abbigliamento mi dovevano essere passati ciascuno da una dama diversa, e l’ordine non era stato deciso prima con precisione, così mi sono trovata a battere i denti, in questo padiglione improvvisato nel mezzo della foresta, al confine tra due stati, in attesa che la nobile giusta mi porgesse nel modo giusto abiti, calze e, scusate, biancheria. Un’altra lunga tappa fino a Compiegne, dove finalmente ho incontrato mio marito.
La mia prima, grande delusione. L’uomo – quasi un ragazzo anche lui – che avevo sposato per procura a Vienna era ben diverso dai ritratti che mi avevano mostrato negli anni. Grasso, goffo, timido e dallo sguardo strano (avrei scoperto solo più tardi che era molto miope), veniva completamente annullato dalla figura elegante e autorevole del padre, mio suocero, uomo decisamente affascinante. Ci siamo piaciuti subito, io e lui: lui perché sapeva apprezzare la bellezza – e io ero decisamente carina – io perché sapevo di aver bisogno di un alleato potente, e lui era decisamente lo era.
Chiunque pensi che la vita a palazzo sia una passeggiata di salute farebbe bene a ricredersi. Nella corte francese della seconda metà del settecento dove sono arrivata io, la vita per una principessa era parecchio complicata. Per una principessa straniera, di più. Per la moglie dell’erede al trono, poi, complicatissima. Se poi ci aggiungete che maman mi inviava praticamente ogni giorno una sua lettera di consigli e rimbrotti, e mi faceva spiare dal mio tutore, il conte di Mercy, che registrava ogni mio respiro per riferirglielo… Insomma, il sogno di una vita da principessa è in realtà un vero e proprio incubo. Chiunque abbia visto il film Marie Antoinette ha ben chiaro come la medaglia del trono ha due facce, una splendente e luminosa, l’altra arrugginita e avvelenata. E non solo in senso metaforico: i veleni a corte non circolavano solo sotto forma di chiacchiere ma anche di pozioni davvero pericolose. Il grande fratello, al confronto del palazzo dove sono arrivata, sarebbe considerato un paradiso della privacy. Già, anche perché ogni dettaglio del rapporto privato con il mio fresco marito diventava immediatamente pubblico. Ogni mancato dettaglio, direi, perché prima che riuscissimo a diventare davvero marito e moglie sono passati otto, lunghissimi, penosissimi anni. Punteggiati dalle lettere e dai consigli di maman, che mi spiegava bene e nei dettagli che cosa fare, anche sotto le lenzuola, con Luigi. Dove, per otto lunghi anni, non è successo niente. Niente di determinante, intendo. E io che cosa potevo fare, visto che tutti a ogni secondo, non facevano altro che guardarmi? Io mi occupavo della mia immagine. Strano che nessuno abbia mai collegato le due cose: la mia mania per gli abiti, i gioielli, le scarpe e le pettinature con gli sguardi puntati su di me a ogni ora, per qualunque evento. Ogni giorno tutti alzavano lo sguardo su di me: e io alzavo ogni volta la asticella dell’abito più lussuoso, del gioiello più appariscente, della parrucca più elaborata. Andavo a testa alta mentre mi chiamavano la vipera, la serpe, la austriaca: e innalzavo sul mio capo pettinature sempre più bizzarre, parrucche e piume, sculture come provocazioni. Volete guardare? Bene, eccovi serviti con qualcosa di cui sparlare, vi risparmio la fatica di cercare un pettegolezzo nuovo – quello del mio matrimonio bianco, della mia verginità intatta, dopo otto anni non faceva decisamente più notizia.
Una cosa di cui posso essere fiera è di essere andata a testa alta fino all’ultimo, anche quando mi hanno caricata su una carretta, con le mani legate, una brutta cuffia in testa: l’aspetto di una vecchia di ottant’anni quando ne avevo solo trentotto. Ma di nuovo corro in avanti, alla tristissima ma non ingloriosa fine di una vita molto poco gloriosa. Capiamoci bene: non mi sto vantando di quello che ho fatto nei primi anni a corte. Delle spese pazze, della fattoria che mi ero fatta costruire per giocare alla pastorella, della mia piccola reggia al Trianon di cui si è tanto sparlato (no, non ho mai avuto pareti ricoperte d’oro e diamanti, anche se costruire quel mio rifugio, regalo di mio marito, non è stato certo economico). E nemmeno delle amicizie, che ho scelto con poca cura, attenta più ai complimenti che alla reale sostanza delle persone. Dopo la nascita dei miei figli ho amato mio marito quanto non lo avevo amato mai. Ho cercato di salvarlo – e di salvare la mia famiglia – mentre lo vedevo compiere un errore dopo l’altro, una imprudenza dopo l’altra. Ed è stata una bella ironia della sorte che la nostra caduta, che sono convinta sarebbe avvenuta in ogni caso, è iniziata con una collana che io non avevo comprato. Per una volta, una sola, che avevo rinunciato a spendere denaro inutilmente! Un intrigo degno delle nozze di Figaro – e qui, sì, ho la responsabilità di averle volute in scena, contro il parere di mio marito, per una volta saggio più di me – ci ha portato in tribunale. Mai un re e una regina dovrebbero essere messi sotto accusa: ma quella accusa particolare, per una volta che ero assolutamente innocente, mi ha fatto perdere la testa. Lo so, la metafora si presta a un gioco di parole: ma cercate di immaginare che cosa posso avere provato nel vedere mio marito ucciso, essere separata dai miei figli, caricata su quella carretta e portata al patibolo legata, nuda di ogni orpello, fra la folla che mi insultava, la folla che non mi aveva mai amato, per cui ero sempre stata, e sempre sarei stata, l’austriaca.
E se ne avessi avuto la forza e il gusto, avrei anche potuto sorridere di un piccolo, davvero curioso dettaglio: quella lama che alla fine ha staccato la mia testa dal collo era sì stata inventata da quel tale signor Guillottin, il medico che voleva rendere la pena di morte più umana (si fa per dire), ma perfezionata proprio da mio marito. Luigi, abile con tutti i generi di meccanismi e serrature, quando il medico gliela aveva presentata gli aveva consigliato di usare una lama con taglio diagonale; sarebbe stata più efficace e meno dolorosa per il condannato…