Nel suo ultimo lavoro,“Sortilegi” (Bompiani, 15 euro) Bianca Pitzorno raccoglie tre racconti scritti durante l’ultimo lockdown. E, chiusa in casa, fa volare la fantasia nel tempo, fino alla peste del 1600, e nello spazio fino alla Argentina. Ma tutto parte da una antica tovaglietta ricamata…
“Si. La moglie dello stilista Antonio Marras, Patrizia, che è il suo braccio destro, ha avuto con lui l’incarico di riallestire il museo etnografico di Sassari: la loro idea è di allestire una mostra esponendo dieci degli oggetti più curiosi e mi hanno dato un elenco per aiutare a sceglierli. Così ho visto questa tovaglietta con un elaborato ricamo che nascondeva una maledizione: da lì è nato uno dei tre racconti poi il libro”.
I tre racconti, in modo diverso, parlano di magia, bianca e nera: una ragazza che viene creduta una strega, la tovaglietta appunto e il magico profumo di biscotti. Che cosa li unisce?
“Ho voluto declinare in tre modi la irrazionalità della gente; la irrazionalità cattiva, quella che ti fa cercare un capro espiatorio per tutto; la seconda la magia boomerang, quella che ti si rivolta contro; e nell’ultimo la magia del quotidiano, dei sapori e dei profumi della terra in cui sei nato. Di magia vera poi ce n’è poca”
Nel libro tutte le donne buone hanno un nome, ma la cattiva è definita soltanto domo manna, la padrona della casa: perché?
“Sì e hanno anche dei nomi significativi: la bambina che si chiama Remedia, un nome molto diffuso in Sardegna perché c’è anche la madonna della Remedia, sa aggiustare le cose anche senza rendersene conto; Vittoria, la trovatella del secondo racconto, viene battezzata così dal parroco perché almeno il suo nome sia di buon auspicio. Ho scelto di non dare un nome alla cattiva perché in realtà ha interiorizzato il lato peggiore del potere maschile, quello del denaro, del rango, è sprezzante e cattiva nei confronti delle altre donne che sono solidali fra loro”.
Sono racconti lievi ma pieni di storia: quella della caccia alle streghe, dei trovatelli in Sardegna, dell’emigrazione…
“Sì, per il primo ho fatto ricerche sul processo e la condanna delle streghe e mi sono chiesta come mai una ragazza diventa un oggetto di sospetto così inquietante: e ho ricostruito la infanzia di questa bambina che la madre allontana da casa quando tutti si ammalano per salvarle la vita ed evitarle di vedere i suoi portati via dai monatti. Nella natura la piccola sopravvive relativamente bene: è quando ritrova la comunità degli uomini che trova la cattiveria.
Ha innestato anche un po’ una favola, lei che è stata una grande autrice per bambini?
“In realtà è successo il contrario: l’origine delle fiabe purtroppo non è fantastica, è vera. Cappuccetto rosso, che in qualche modo richiamo quando la mamma manda nel bosco la bambina da sola con il cestino; il ragazzino abbandonato nel bosco dalla matrigna crudele è Pollicino: ma erano vere le situazioni in cui i genitori abbandonavano i figli per non vederli morire di fame sotto i loro occhi”.
Quanto il lockdown ha influito sul suo lavoro?
“Ho ripreso il racconto sulla peste perché c’erano molte affinità con quel periodo: la solitudine, perché gli esseri umani hanno dovuto ridurre i rapporti fra loro, e il sospetto nel non voler riconoscere le verità scientifiche e voler cercare un capro espiatorio”.
Ma lei crede nella magia?
“Io credo che ci sono tante cose che noi non capiamo. E che siccome non le capiamo le chiamiamo magia: Non credo alla potenza della magia: nella seconda metà del seicento un re di Aragona aveva un figlio che era superstizioso al massimo, terrorizzato dal malocchio. Il re gli scrive una lettera divertentissima dicendogli: “figlio mio, ma se una persona da lontano avesse davvero il potere di nuocere con un incantesimo fino a farla morire non ci sarebbe un re in tutta Europa sarebbe ancora vivo!”