La scuola: un tema che interessa prima o poi tutte le famiglie, su cui si discute, si critica, di cui ci si lamenta. Ma è un fatto che ogni mattina in Italia nove milioni di bambini e ragazzi si presentano al portone degli edifici scolastici. Per prepararsi al futuro, per individuare un mestiere: anche se, nel 65 per cento dei casi, gli scolari delle elementari dovranno vedersela con un lavoro che oggi ancora non esiste. Mentre i più grandi si confrontano con la fragilità, pesante eredità dell’isolamento da pandemia. Tanti i punti, interessanti e vitali, toccati da Gianna Fregonara e Orsola Riva nel libro Non sparate sulla scuola (Solferino editore).
Così giovani così fragili
A Milano gli studenti del liceo Berchet si sono rivolti agli insegnanti per una volta non per contestare o protestare ma per chiedere aiuto, per confrontarsi sulle loro fragilità. “Quello che è successo è che ci siamo un po’ dimenticati in fretta del Covid” spiega Gianna Fregonara. “Abbiamo riportato i ragazzi a scuola, per un anno abbiamo detto ai professori di trattarli bene, poi abbiamo fatto finta che non fosse successo niente. Loro chiedono aiuto nella scuola, dove si riconoscono. Purtroppo sul servizio psicologico siamo tornati un po’ indietro perché i fondi non ci sono e se ne parla troppo poco. Mentre tutti gli studi dimostrano che per andare bene a scuola bisogna stare bene a scuola, che il primo passo verso il disagio o l’abbandono è quando a scuola non si sta bene”.
La carica dei banchi a rotelle
Proprio durante il Covid si è molto parlato dei banchi a rotelle, acquistati e poi buttati: ma è vero che, in un mondo che cambia sempre più rapidamente, la struttura della classe – cattedra, banchi – è la stessa da secoli, e influenza lo stile di insegnamento. “Su questo ci sono tanti esperimenti, lasciati spesso alla iniziativa del singolo insegnante o preside; nelle elementari molti sforzi sono stati fatti, ma alle medie e alle superiori tutto è come prima, con banchi tradizionali molto spesso inadeguati alla statura dei ragazzi. I banchi a rotelle erano certamente la soluzione sbagliata in pandemia: sono stati studiati per avvicinare gli studenti, per collaborare, invece in quel momento avrebbero dovuto separarli. La reazione comune è stata di deriderli, non di immaginare un altro modo di organizzare la classe”.
Nord e Sud: un anno di scuola in meno
Interessanti alcuni dati del libro: nel Centronord le 40 ore settimanali, dalle 8 alle 16, sono la norma: in Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna, Toscana e Lazio le richiedono il 60 per cento dei genitori, con punte dell’80 a Roma. Al Sud, invece, la scuola al pomeriggio è un’eccezione: in Campania ci va meno di un bambino su tre, in Sicilia uno su sei. “E’ una scuola a due velocità: fatti i conti è come se i bambini del Sud, alla fine del percorso, fossero andati a scuola un anno in meno; è vero che c’è meno richiesta da parte delle famiglie, anche perché c’è meno offerta. Le scuole sono spesso edifici vecchi dove è difficile organizzare le mense, necessarie per il tempo pieno. Nel tempo, con gli edifici nuovi, questo problema si potrebbe attenuare, ma per risolverlo dovrebbero mettersi insieme le provincie, spesso proprietarie degli immobili, il comune che deve organizzare il servizio e lo stato che deve finanziare. Un orario più ampio consente un tempo di apprendimento più disteso, consono a un ritmo di vita. Fior di studi dimostrano che gli adolescenti rendono pochissimo la mattina, invece noi li portiamo a scuola alle otto e per questo magari devono svegliarsi alle sei. In Europa le scuole in genere si allungano nel pomeriggio: non più ore, solo disposte diversamente”. E non è vero che si vada a scuola poco: in Italia ci vogliono almeno 200 giorni perché l’anno scolastico sia valido: un record condiviso, in Europa, con la sola Danimarca.
Conti (e compiti) che non tornano
Un altro tema molto importante è quello del rapporto fra ragazze e materie scientifiche: per anni si è pensato che le scolare fossero poco dotate, o comunque meno dei maschi. “Ci sono studi che dimostrano che la autostima riguardo alla matematica comincia ad essere minata già nelle bambine piccole; fra le cause la differenziazione dei giochi e il messaggio che, quasi inconsciamente, passano i genitori. Che il maschio sia più adatto alle materie scientifiche e le ragazze più creative: bisogna lavorare per cambiare il pregiudizio sia nelle famiglie, negli asili e nelle elementari, ed è un lavoro che si è cominciato a fare. Ma ci vorrà molto tempo”. Un argomento che crea grandi discussioni è quello dei compiti a casa: tanti, troppi, utili o inutili? “I compiti tendono ad amplificare vantaggi e svantaggi di partenza dei ragazzi, spiega la Fregonara. Sono una fonte di grande iniquità perché creano diseguaglianza; sempre più spesso sono inutili e inefficaci perché di solito se i compiti sono tanti li fanno i genitori, o con l’aiuto internet o dell’intelligenza artificiale; in qualche modo, addirittura, insegnano a copiare. Anche soltanto avere qualcuno a casa che chiede se si sono fatti i compiti o li controlla fa la differenza e apre il divario fra studenti. I nostri scolari sono quelli che studiano di più a casa il pomeriggio,: ma bisognerebbe trovare altre forme per il ripasso”.
I nuovi genitori, dalle chat di classe al ricorso al Tar
Quello che è cambiato tantissimo negli anni è anche il rapporto genitori e insegnanti: con i figli sempre più preziosi su cui le madri e i padri proiettano aspettative a volte in contrasto con le reali doti dei loro ragazzi. “Questo è dovuto anche al fatto che, decenni fa, le mamme non avevano studiato, quindi andare a scuola era un valore. Oggi i genitori hanno spesso lo stesso livello di studio o superiore degli insegnanti, quindi sono più attenti ma anche più invadenti; il registro di classe e le tecnologie hanno fatto il resto. Sai minuto per minuto se tuo figlio è andato a scuola o no, lo controlli. Anche i genitori andrebbero un po’ educati a usare le tecnologie e magari limitarne l’uso. Il fenomeno dei ricorsi al Tar su una bocciatura o un giudizio è interessante: i numeri dimostrano che il Tar dà quasi sempre torto ai genitori; così fanno notizie i casi in cui vincono, e dai giornali abbiamo l’idea che i ricorsi i vincono sempre. Ma non è così, non si vincono quasi mai!”. Anche perché, come scrive nel libro, sui social una bugia viaggia a una velocità che è sei volte superiore a quella della verità.
Quale futuro?
Gli studi dicono che il 65 per cento dei bambini che ora frequenta le elementari avrà un tipo di lavoro che ancora non c’è: come può la scuola inseguire un futuro così incerto? “Questa è la domanda delle domande”, spiega la Fregonara, “che cosa si deve imparare a scuola in un mondo che cambia alla velocità supersonica. I ragazzi si devono preparare a un futuro in cui avranno molte più possibilità di quelle che avevamo noi. In realtà il fine ultimo della scuola è insegnare a imparare: ovvio che le nozioni servono, ma sarà necessario per le nuove generazioni tornare sui banchi anche dopo i 16, 18, 25 anni; e solo chi sa imparare sarà in grado di aggiornarsi, modificarsi, sarà adatto a vivere in un mondo che non sappiamo come sarà. Gli altri rischiano di rimanere esclusi”.
Dati interessanti:
nel 1971 il 27,1 per cento della popolazione italiana non aveva alcun titolo di studio e il 5,2 per cento era analfabeta; nel 2011 due italiani su dieci avevano soltanto la licenza elementare
Gli studenti persi: secondo la rilevazione pubblicata a maggio 2023 da Eurostat, la banca dati dell’Unione europea, in Italia si tratta di quasi mezzo milione di giovani, l’11,5 per cento della popolazione tra i 18 e i 24 anni.
Tra gli ammessi alla maturità solitamente oltre il 99 per cento (il 99,8 nel 2023) viene promosso.