Come sarà il nostro pranzo di Natale è una vera incognita. Da soli, in famiglia, con le mascherine… Ma ve li ricordate i Natali di una volta, di quando eravamo bambini? Tutti insieme, appassionatamente, nonni e nipoti, zii e zie, mamme e papà, in due tavolate infinite co infinite portate di cibo. Se il pranzo della domenica, con il risotto e il lesso d’ordinanza, era un rito, quello di Natale era una celebrazione decisamente più complessa. Il menu consisteva negli antipasti – di rigore il vitello tonnato, l’insalata russa, salumi, verdure sott’olio e sott’aceto – un primo, in genere gratinato al forno (il sussiegoso “gratén”) o di pasta ripiena rigorosamente fatta in casa; un secondo di carne, la cervella con i piselli, il dolce, la frutta fresca e secca. Arance e mandarini solitamente accompagnati dai ricordi dei nonni che ci rammentavano, anno dopo anno, quanto fossimo fortunati, visto che loro al massimo, la mattina del 25 dicembre, quando erano piccoli, ricevevano come regalo qualche mandarino accompagnato da due o tre noci. Per soprammercato arrivava la macedonia, arricchita da qualche chicco d’uva (perché porta buono: il nonno ne teneva qualche grappolo in cantina, appesa al buio: il risultato erano chicchi un po’ appassiti ma dolcissimi) e dalle esotiche, costose banane. E il grande giornalista Giorgio Bocca, piemontese nato nel 1920, ricorda nella sua biografia, con delicata grazia, il primo Natale della sua famiglia dopo che lui era si era unito ai partigiani in lotta sulle montagne: quando viene portata in tavola “la macedonia con le banane, senza di me”. Il tutto richiedeva lunghe preparazioni e grande ansia per il risultato di tutto quello padellare. In attesa della messa di mezzanotte le massaie accorte e infaticabili lessavano il prezioso magatello per il vitello tonnato; bollivano patate e carote per l’insalata russa e montavano uova e uova di maionese (vedi alla voce); preparavano litri di salsa besciamella per passare in forno le verdure o tagliavano metri e metri quadri di pasta fresca per chiuderla a ravioli o tortellini sul ripieno impastato con uova, carne e parmigiano grattugiato. Insalata russa e vitello tonnato, più una bella ciotola della dorata salsa liscia, erano preparati in abbondanza, visto che i commensali erano sempre parecchio numerosi; le cuoche più capaci ne preparavano anche qualche ciotola in più da regalare alle amiche meno esperte perché anche loro potessero fare buona figura la mattina dopo; a Natale, infine, si è tutti più buoni… Il contorno immancabile era il pancottino, delicata insalatina di soncino dalle minuscole foglie dal sapore acidulo, tenuta sotto controllo giorno dopo giorno in un angolo dell’orto riparato da un traliccio di foglie di granturco, pulita con santa pazienza tenendo i ciuffetti interi; era di un verde brillante contornato a volte da un sottile bordo rugginoso dovuto al freddo. Da preparare all’ultimo momento, invece, la decorazione del vitello tonnato e dell’insalata russa: capperi e prezzemolo, verdure o fette di limone tagliate sottili a comporre disegni che andavano dalle semplici greche vagamente decò alle capanne di Betlemme, con tanto di stella cometa di carote: ma comunque tali da richiedere arte, tempo e pazienza, e da provocare un oh di ammirazione dai commensali quando venivano portate in tavola. Tutti si buttavano sui cibi con entusiasmo che andava ben oltre la fame e scemava man mano col progredire delle portate, fino al sontuoso dolce, in genere il tronchetto di Natale o il goloso Monte Bianco. Non si sa per quale motivo, ad avanzare era sempre il povero arrosto, rigorosamente di vitello, che da noi si cuoceva “glacé”, come diceva con un francesismo la nonna: ben rosolato e portato a cottura con abbondanti carote e cipolle, per ammorbidirlo e arricchirlo di sapore (e, dato il costo, di volume). Sempre più rinsecchito, e quindi sempre più snobbato, si aggirava poi per giorni sulla tavola, sempre abbandonato a favore di più appetitosi avanzi. Per finire poi, insieme con il lesso di rigore per la cena – quindi la massaia non aveva nemmeno il tempo di sparecchiare che già doveva mettere sul fuoco un’altra pentola.
Una domanda ci assaliva regolarmente per Natale: perché diavolo si trovava sempre una zia od una prozia pronta a ricordarci di pensare ai bambini poveri? Non eravamo insensibili alle miserie del mondo, ma non era meglio ricordarcelo davanti a un piatto di castagne bianche invece di rovinarci una delle poche occasioni in cui si poteva scialare (con parsimonia s’intende) sulle vivande?!